lunedì 9 aprile 2007

Il guaritore ferito

Caro Lettore
Voglio raccontarti il mito di Chirone che ci riporta alle estreme origini della medicina, là dove queste si perdono e si confondono con la forza evocativa della mitologia. Chissà che anche al mondo d’oggi non ci serva stimolare un po’ la fantasia e scoprire i poteri curativi dell’arte medica al di là degli indiscutibili progressi della tecnologia scientifica!
Dunque: Chirone era il più noto di tutti i centauri e, a differenza di questi, era dotato di grande bontà e saggezza ed era amico degli uomini e degli dei. Egli abitava in una grotta del monte Pelio in Tessaglia non lontano dal monte Olimpo, la residenza di tutte le divinità greche. La mitologia antica ce lo presenta come figlio illegittimo di Crono e della dolce Fillira e quindi addirittura fratellastro di Zeus, il signore di tutti gli dei, che donò al centauro l’immortalità. Chirone apprese l’arte della medicina e l’uso delle piante medicinali dalla sorellastra Artemide, che i romani chiamarono Diana, dea della caccia, degli animali selvatici e protettrice della natura. Fu maestro di Asclepio (l’Esculapio dei romani), il famoso dio della medicina e di molti altri grandi personaggi del mito antico quali Bacco, Ercole, Enea, Ulisse ma soprattutto Achille per il quale fu insostituibile pedagogo e medico; quest’ultimo infatti era ancora bambino e fu operato al calcagno da Chirone che gli sostituì l’osso bruciato a causa delle pratiche magiche della madre degenere Teti. La fine del centauro Chirone fu involontariamente segnata proprio dall’amico Eracle (Ercole). Andò così: dopo la sua terza fatica, quella della cattura del cinghiale di Erimanto, Eracle fece visita al centauro Folo il quale offrì del vino all’eroe aprendo la giara dei centauri; questi si adirarono, considerando il gesto come una violazione e si lanciarono contro Eracle che li respinse e ne uccise alcuni; i centauri, per difesa, si rifugiarono nella grotta di Chirone che, ignaro di ciò che stava succedendo, si fece incontro all’amico Eracle nell’istante esatto in cui questo scagliò una freccia che andò a colpire per errore il ginocchio del centauro. La ferita era profonda e inguaribile e a nulla servirono le immediate cure di Eracle e lo stesso potere curativo del centauro perché le frecce del potente eroe erano avvelenate col sangue dell’idra di Lerna; Chirone sarebbe stato condannato alla sofferenza eterna non potendo morire a causa della sua immortalità. Allora Zeus, mosso a compassione, permise a Chirone di donare la sua immortalità al titano Prometeo che aveva fatto adirare il re degli dei per aver donato il fuoco agli uomini. Così la morte di Chirone salvò il generoso Prometeo e con lui tutti gli uomini.

Chirone è un eroe riparatore di colpe e di malattie e rappresenta la grande ambivalenza, oggi smarrita, tra l’ammalato guaritore e il guaritore ammalato: un’ambivalenza che media le diverse condizioni della persona ed esprime il rapporto bidirezionale tra medico e paziente come negoziato culturale che sviluppa un atto decisionale diagnostico e terapeutico.
Mai come in questo momento storico c’è estrema necessità di una figura nuova di medico che sappia derivare l’atto terapeutico da una piena condivisione col paziente di fatti vissuti ma anche di sentimenti e passioni. In questa ottica il medico come “guaritore ferito”, cioè che fa esperienza di malattia, acquisisce una capacità nuova di interpretazione degli eventi e il suo potenziale terapeutico è direttamente proporzionale alla sua capacità di sopportare e curare le proprie ferite oppure di affrontare la morte.
Il concetto viene ben chiarito ed esasperato da questo passo di Victor Von Weizsacker, un medico psichiatra tedesco dell’ottocento: “Solo se la natura presente nel medico viene toccata, contagiata, stimolata, spaventata, scossa, solo se la malattia si trasmette su di lui, prosegue in lui e, filtrata dalla sua coscienza, viene ricondotta a se stessa, solo allora e solo finché questo avviene, è possibile che il medico vinca la malattia”. Aggiungo io, la propria e l’altrui.
Anche molti studi antropologici ci aiutano a capire questo archetipo che trae origine dal centauro ferito. Si legge infatti che anche per accedere al rango di sciamano il requisito essenziale è quello di possedere una piaga, un qualche difetto, una malattia cronica, una disabilità evidente; inoltre nella biografia dello sciamano, ma anche in quella di alcuni grandi professionisti dell’aiuto, è presente un periodo di ritiro e di isolamento, col significato quasi di una purificazione, al termine del quale il guaritore ritorna all’interno della tribù con una consapevolezza nuova della sua vulnerabilità e, insieme, della sua arte e della sua funzione (da L’Arco di Giano – 2000).
La medicina, che chiede a gran voce da parte dei pazienti di essere umanizzata, avrebbe una risposta concreta dall’interno, quella proveniente da un medico simbolicamente “guaritore ferito”, e quindi non solo
rispettoso della soggettività del malato, ma anche interiormente consapevole del peso della sofferenza e del dolore.
Ma in quale senso il medico pur “ferito” rimane “guaritore”?
Al di là dei ruoli costruiti sulle regole della società civile che, banalmente, assegna potere terapeutico all’autorità medica (la fama del grande clinico o chirurgo fa la vera medicina), il vero medico, a cominciare dal più piccolo di essi, per poter curare non deve mai pensarsi separato dall’essere paziente egli stesso. Analogamente deve accadere per il paziente che, quando si ammala, trova in se stesso un “guaritore interno” la cui azione viene messa a confronto con quella del medico; da questo fertile incontro nasce un progetto e una strategia curativa che è destinata ad avere successo nel tempo.
Il comune pensiero collettivo ci porta spesso ad esprimere sorpresa di fronte al medico “ferito”, che, vorremmo magicamente immune dal giogo della malattia; d’altra parte non è necessario che tutti i medici si ammalino per poter conservare le loro capacità curative, è sufficiente che ogni operatore della salute e dell’aiuto lasci emergere il paziente che risiede in lui, riconosca la propria umanità e permetta che questa entri a far parte del rapporto negoziale tra curato e curante proprio come un vero strumento di terapia alla pari del bagaglio delle migliori acquisizioni scientifiche disponibili.
L’empatia che scaturisce da un rapporto così equilibrato (e forse ideale) è indispensabile nelle scelte tra il necessario e il superfluo, tra l’utile e il dannoso, tra l’eccessivo e il difettivo. Un medico “padrone”, nel senso descritto, di tutti quegli strumenti (scientifici e comunicativi) li userà orientandoli a beneficio della persona ammalata piuttosto che della malattia e sarà consapevole del valore del progresso tecnologico senza lasciarsi dominare da esso.

Alessandro Del Carlo

1 commento:

Unknown ha detto...

Questo e'un contributo straordinario...!Grazie professore . Credo profondamente in ciò che lei scrive e commenta. G.M